Tratto da: "Narcomafie" del 06/06/2002
Fatta la legge, trovato l'affare
Incentivata da una legge che mirava allo sviluppo del
Triveneto con finanziamenti e agevolazioni fiscali, la ricostruzione delle zone
disastrate è stata anche un enorme business. Non sempre alla luce del sole La mattina del 5 ottobre 1968, due persone bussarono alla
porta di casa di Vincenzo Teza. Per Vincenzo il tempo sembrava essersi fermato
cinque anni prima, al giorno della catastrofe. Di notte, appena chiudeva gli
occhi e si rilassava, gli tornavano alla mente le immagini dei corpi straziati
dei suoi cari. Avrebbe fatto di tutto per buttarsi alle spalle la disgrazia e
dimenticare quello che era successo. Per questo aveva perso la voglia di urlare
al mondo intero la sua rabbia. Da anni non parlava più del Vajont, nemmeno con
la moglie Carolina. Del resto aveva già detto tutto quello che aveva da dire
nei giorni successivi alla tragedia. Vi è ancora un filmato di allora in cui
Vincenzo, intento a scavare, diceva a un giornalista: «Non ci aiutano neanche
con una parola di conforto. Mi vergogno di essere italiano». Si era sentito più volte umiliato e offeso. Quando diceva
che era di Longarone c'era sempre qualcuno che gli buttava in faccia frasi come:
«Beati voi che vi siete arricchiti con i vostri morti. Con le tasche piene si
piange meglio». Lui che per avere un paio di scarpe usate, arrivate come aiuti
per i superstiti, aveva dovuto firmare un foglio in cui dichiarava di avere
preso dei soldi. O come altri superstiti a cui avevano dato un materasso per
dormire per terra e glielo avevano fatto pagare scalandolo da quel poco che
diedero loro come sussidio per tirare avanti. «A voi superstiti non spetta niente» gli dissero gli uomini
venuti quella mattina di ottobre. «Per questo ti conviene accettare quello che
ora ti si offre, altrimenti non avrai mai più niente. Prendere o lasciare». STRAZIATI E INGANNATI Quello che si offriva ai superstiti erano davvero quattro
soldi: un milione e mezzo per la perdita dei genitori, ottocento mila lire per i
fratelli (vedi tabella a p. 13). Per i nonni non era inteso nessun risarcimento
grazie a un cavillo legale. La transazione era ineccepibile dal punto di vista
formale: nessuno avrebbe mai potuto avanzare altre rivendicazioni. Per i sette
familiari morti Vincenzo ebbe poco più di 6 milioni di allora, equivalenti a
circa 90 milioni di lire attuali. Una miseria economica e morale, soprattutto se
si considera lo stato psicologico dei superstiti e il contesto nel quale vennero
fatte firmare le transazioni. Ancora una volta i superstiti erano stati lasciati
soli, senza aiuto legale, senza qualcuno che spiegasse loro cosa significava
firmare quel pezzo di carta e quali rinunce implicava. < È stata un'operazione davvero vergognosa» spiega Italo
Filippin, nel 1969 consigliere di minoranza del comune di Erto, poi commissario
straordinario e sindaco. «Quando 1'Enel si è resa conto che, se al processo
fossero state riconosciute le sue responsabilità, un migliaio di persone le
avrebbero fatto causa per ottenere un risarcimento, pensò di proporre questa
transazione. C'era un pool di avvocati che andava di casa in casa a convincere
la gente ad accettare l'offerta: "Se volete fare causa all'Enel dovete
tenere presente che avete a che fare con un colosso. Perderete senz'altro. Ma
possiamo metterci d'accordo". Il 94% dei superstiti accettò, molti avevano
il mutuo per la casa da pagare. La maggior parte di quel 6% che rifiutò
l'accordo aveva una situazione economica meno disperata degli altri e poteva
permettersi di aspettare o aveva alle spalle un partito politico o una
parrocchia disposti ad accollarsi l'onere per le spese legali. Di queste circa
100 persone che non firmarono, alcune hanno ottenuto in seguito più di chi
aveva accettato, ma altri devono ancora concludere la causa e altri ancora, come
mia zia, per errori dei giudici che hanno trascritto male qualche dato, sono
perfino stati condannati al pagamento delle perizie e delle spese legali. Mia
zia è morta la scorsa notte senza aver avuto alcun risarcimento. Per ogni
transazione che facevano firmare gli avvocati presero cinque milioni dal1'Enel,
più di quello che ebbero molti dei superstiti con le transazioni. Ma ci sono
anche stati morti per i quali 1'Enel, lo Stato e la Montedison - le tre persone
giuridiche coinvolte - non hanno versato nemmeno un soldo. Si tratta di circa
600 morti che non avevano eredi diretti». GIUSTIZIA "AZZECCAGARBUGLI" Fu proprio l'avvocato dell'Enel Giovanni Leone, che nella
veste di Presidente del Consiglio aveva promesso giustizia, a scovare nel codice
civile quell'articolo che fece risparmiare l'azienda. In base all'articolo n. 4
del codice civile sulla commorienza (quando, di due persone, sia impossibile
definire quale sia deceduta per prima, al fine giuridico si considerano morte
nello stesso istante) i nipoti non vennero mai risarciti per i nonni, morti
insieme ai loro genitori. Fu il tribunale di Belluno a utilizzare per primo, per
le vittime del Vajont, l'articolo 4. Dal punto di vista legale era tutto ineccepibile. Dura Lex
sed lex. Ma per alcuni di quelli che persero parenti non è tuttora facile
accettare che per quella strage che annientò intere stirpi familiari non ci
fosse nel codice civile e penale dello Stato italiano una legge che permettesse
di avere giustizia. «Non riesco a darmi pace per questa vera e propria truffa
legale» dice Guglielmo Cornaviera, presidente del "Comitato superstiti del
Vajont", che da anni si batte come un Don Chisciotte per rivendicare i
diritti di questi 600 morti. «È come affermare che per i responsabili di
questa strage sarebbe stato meglio se fossimo morti tutti, così non avrebbero
dovuto risarcire nessuno. Non hanno versato un soldo per famiglie completamente
distrutte. Vi sono poi anche casi di persone che non hanno mai firmato una
transazione perché a loro nessuno disse che avevano diritto a un risarcimento.
Non dimentichiamo che in quegli anni non tutti i cittadini italiani conoscevano
i loro diritti o conoscevano le strade per rivendicarli. Nel 1993 i comuni
interessati hanno messo avvisi per ricordare ai propri cittadini che potevano
farsi avanti e presentare una domanda per il risarcimento. Non si sa come, ma le
domande del comune di Erto e Casso sono andate perse, molte altre sono state
respinte in quanto mancava quella documentazione che era per altro quasi
impossibile produrre dopo tanti anni». «L'unica possibilità legale per le vittime non risarcite -
dice Pierluigi De Cesero, attuale sindaco di Longarone - è che venga stanziato
un forfait simbolico con il quale vengano costruite opere pubbliche, per esempio
un asilo o una scuola. Purtroppo è passato troppo tempo». UNA RICOSTRUZIONE MOLTO APPETIBILE Per i superstiti ricominciare a vivere non fu facile. Il 9
ottobre 1963 rappresentò la fine della vita vissuta fino a quel momento e la
necessità di ricominciarne un'altra da zero, senza affetti, senza più
riferimenti socioambientali. Non avevano perso soltanto le loro case e in molti
casi tutti i parenti, di primo, secondo, terzo e quarto grado, ma anche amici,
conoscenti, maestri, preti e parroci, medici di famiglia, rappresentanti delle
forze dell'ordine. Quello che rimaneva loro della vita passata era qualche altro
superstite sconvolto, una campana, la statua della Madonna Immacolata -patrona
della parrocchia, ripescata nel Piave a Fossalta, in provincia di Venezia - il
campanile di Pirago, il municipio di Longarone, una sequoia secolare rimasta
incredibilmente in piedi tra i flutti che sradicarono come fuscelli costruzioni
in cemento armato. Per lo Stato, corresponsabile della tragedia, il Vajont fu
una grande opportunità, un grande business. Soprattutto perché di tutto ciò
che c'era prima nell'area disastrata non rimaneva niente. Si poteva pianificare
tutto da capo, con assoluta libertà. Non si trattava di andare a riparare dei
danni, impresa sempre onerosa, ma si poteva riprogettare l'intera zona, senza
vincoli di sorta. La logica della cosiddetta "legge VaJont" (n.357/1964),
come scrive il ricercatore dell'Isbrec Vincenzo D'Alberto, «non era quella del
risarcimento dei danni provocati dal disastro alla popolazione locale, ma quella
dello sviluppo, di uno sviluppo capitalistico, e in primo luogo industriale, in
un quadro programmato (la programmazione comprensoriale), dentro un disegno che
puntava decisamente alla realizzazione della realtà economica, sociale e, non
ultimo, culturale del bellunese». (Disastro e ricostruzione nell'area del
Vajont, a cura di Ferruccio Vendramini, comune di Longarone, 1994). «In un certo senso - spiega Italo Filippin - la legge 357 fu
diabolica e permise solo alle briciole degli stanziamenti di arrivare nelle aree
disastrate. Negli anni in cui sono stato sindaco di Erto e Casso, dal 1973 al
'78, solo il 4% dei 300 milioni stanziati per il mio comune sono di fatto
arrivati a destinazione. La legge allargava la possibilità di beneficiare dei
finanziamenti per la ricostruzione praticamente a tutto il Uiveneto, non solo
nelle province di Belluno e Udine (nel 1964 Pordenone non era ancora provincia,
ndr), ma anche di Trento, Bolzano, Gorizia, Vicenza, Ueviso, Venezia, Trieste. 1
titolari di qualsiasi attività preesistente sul territorio che poteva essere
documentata con atto di notorietà potevano accedere ai finanziamenti, senza
limiti di spesa, per riavviarla e anche ampliarla». Il principio non era sbagliato: ogni cittadino dei comuni
disastrati che, al tempo della tragedia, possedeva una licenza (commerciale,
artigianale o industriale) aveva diritto a un contributo del 20% a fondo perduto
per riavviare l'attività, a un mutuo dell'80% a tasso agevolato della durata di
quindici anni (non dimentichiamo che l'inflazione poteva raggiungere in quegli
anni anche il 15%) oltre all'esenzione dal pagamento delle tasse per dieci anni. Ma la legge si spingeva oltre questo atto dovuto nei riguardi
dei sinistrati. Stabiliva infatti che chi non poteva o non voleva riprendere la
vecchia attività aveva il diritto di venderla ad altri e che questi altri
potevano beneficiare degli stessi diritti a patto che l'attività venisse
riproposta all'interno del comprensorio definito, che, come abbiamo visto,
finiva per interessare tutto il Triveneto. CACCIATORI DI LICENZE «Avvocati e commercialisti mandati da imprenditori di fuori
si presentarono nelle case dei titolari delle licenze, perlopiù venditori
ambulanti di cucchiai di legno, di gelati, o barbieri, e offrirono loro piccole
somme di denaro, cinquantamila, centomila, al massimo un milione di lire, per
rilevarle» spiega Italo Filippin. «Anche in questo caso i mediatori, il più
delle volte persone di cui i sinistrati riponevano fiducia, ottenevano una lauta
ricompensa, circa cinque milioni di allora, per ogni licenza che riuscivano ad
acquisire. È evidente che non avevano alcun interesse a spiegare ai titolari a
quali diritti rinunciavano firmando quel pezzo di carta». Nessuno disse per esempio ai sinistrati che la vecchia
attività poteva essere ampliata senza limiti di preventivo, che poteva essere
riconvertita in una nuova attività, diversa da quella originaria, che poteva
essere avviata anche in uno qualsiasi degli altri comuni del comprensorio e che
si sarebbero potuti chiedere altri finanziamenti anche negli anni a venire. In parole povere nessuno spiegò loro che quella licenza era
come una gallina dalle uova d'oro, l'occasione per dare una svolta alla propria
vita (le aziende nate sulle ceneri di queste licenze ricevono tuttora
finanziamenti agevolati). Grazie a questa legge il Vajont diventò una ghiotta
occasione di profitto per quelli che riuscirono a rilevare una o più di quelle
licenze. Ecco qualche esempio (l'elenco completo delle attività rilevate e poi
riattivate è pubblico): Giacomo Solari, di Longarone, commerciante di legname,
ha venduto la sua licenza alla ditta "Industrie meccaniche" di Alano
di Piave, una fonderia, che ottiene per la riattivazione lire 1.125.208.609;
Fedele Olivotto, calzolaio di Longarone, vende la licenza a "La tegola
inglese" (aperta per l'occasione nel 1966) di Trichiana, che fa tegole in
cemento e ottiene oltre duecento milioni. E ancora: Agostino De Mas e il figlio
Leonardo, proprietari di una segheria e commercianti di legname, vendono alle
"Cartiere di Verona" di San Giustina Bellunese, che riceve quasi tre
miliardi per la riattivazione. Anche le più prestigiose ditte del Veneto non si
lasciano scappare l'occasione di approfittare della legge sul Vajont per
ottenere i finanziamenti a fondo perduto e le altre agevolazioni previste. Gli
eredi di Mario Celso, calzolaio di Longarone morto nella tragedia, vendettero la
sua licenza alla "Zanussi Mel", fabbrica di compressori del gruppo
Zanussi, che ottiene tre miliardi per la riattivazione. UNA CONGREGA DI TIPO MAFIOSO Scorrendo il lungo elenco delle ditte beneficiarie dei
contributi e dei finanziamenti, si può notare che proprio quelle della zona
colpita hanno ottenuto in genere meno delle altre. Gli eredi dei titolari delle
licenze hanno avuto ancora meno degli altri per la vendita dell'attività dei
loro genitori - mai più che qualche decina di migliaia di lire - anche quando
la licenza ha fruttato miliardi a chi la rilevò. La legge lasciava ampio spazio a questo tipo di
"speculazioni". Nel formulare la legge l'intenzione era stata quella
di trasformare la catastrofe in un evento positivo per l'imprenditoria delle
regioni, sia quelle direttamente coinvolte, sia quelle vicine. E in questo senso
si può davvero dire che il Vajont fu una grande fortuna per tutto il bacino
industriale del comprensorio. Le emergenze e i bisogni della gente -
psicologici, economici, culturali - furono considerati in fondo soltanto un
elemento di disturbo perché distoglievano energie dal vero obiettivo
dell'intervento: lo sviluppo industriale di quella parte del Nord Italia rimasta
un po' indietro. Nonostante la libertà di iniziativa lasciata dalla legge, non
tutti gli affari vennero condotti con i crismi della legalità. Per partecipare
ai banchetto, per avere una fetta di torta più grossa pur non avendone diritto,
ci fu chi prese la scorciatoia. Tina Merlin scrisse: «Il meccanismo che
presiedette a questo losco traffico delle licenze sul versante friulano del
Vajont venne portato a conoscenza dell'opinione pubblica solo nel 1980. A
Pordenone si celebrò un processo contro 14 persone variamente imputate di
corruzione, falso, truffa. Fra questi il commercialista pordenonese Aldo Romanet,
assurto nuovamente alla cronaca nera all'epoca della morte del presidente del
Banco Ambrosiano Calvi, e che si disse fosse stato visto a cena con lui a
Trieste la sera prima del suo espatrio. Era un meccanismo tecnico-politico
perfetto: a Erto il geometra del Comune Arturo Zambon incettava le licenze; a
Pordenone il commercialista Aldo Romanet istruiva le pratiche che il notaio
Diomede Fortuna, sempre di Pordenone, legalizzava. Da qui venivano inoltrate
alla Commissione provinciale di Udine, dove il segretario Pierluigi Manfredi,
facente parte della "banda", le sottoponeva sollecitamente, dietro
compenso, al vaglio della Commissione. Il presidente della stessa, Vinicio 'Iumente,
non trovava nulla da eccepire e le ammetteva al contributo, anche perché coloro
che le istruivano e le proponevano erano tutti suoi amici. Sennonché le
"nuove industrie" o si dimostravano fasulle, oppure erano villaggi
turistici e condomini. AI processo di Pordenone venne alla luce una vera
organizzazione a delinquere di tipo mafioso e di estensione internazionale che
probabilmente aveva radici anche all'interno del Ministero dei Lavori Pubblici,
protesa a rastrellare denaro dallo Stato per la "ricostruzione" del
Vajont attraverso complessi industriali risultati inesistenti, ma che
presentavano regolari piani di avanzamento dei lavori, risultati anche loro
fasulli. Per ogni lotto, milioni, miliardi truffati allo Stato e inoltrati sulle
banche svizzere in conti correnti dalle intestazioni fantasiose. Qui, un certo
avvocato Campana curava gli interessi della "banda". Il segno mafioso
dell'organizzazione - che dopo le vicende Romanet-Calvi occorrerebbe meglio
scandagliare in tutti i suoi risvolti, se è vero, come è stato scritto, che
questo Romanet viaggiava spesso per conto terzi in America latina -venne
annunciato nell'aula del processo dallo stesso Presidente del Tribunale, che
riferì di un testimone svizzero che aveva mandato a dire di non poter venire a
testimoniare per paura: era stato minacciato di morte. Al processo fu chiaro
agli stessi giudici, che peraltro emisero lievi condanne, che dietro gli
imputati c'era ben altro» (Sulla pelte viva. Come si costruisce una catastrofe.
Il caso Vajont Edizione Cierre, Verona, 1997). SACRIFICATI ALLO SVILUPPO Quello che è successo dalla parte friulana a monte della
diga del Vajont (nei comuni di Erto e Casso) è ovviamente successo anche nella
parte veneta a valle. Anche qui è lunghissima la lista delle
"irregolarità": aziende aperte giusto il tempo per avere i
finanziamenti e poi fallite, soldi elargiti con sospetta leggerezza, terreni
strapagati, lavori malfatti, costruzione di inutili cattedrali nel deserto. «Miliardi e miliardi sono piovuti su ditte nel nome del
Vajont» dice Carolina Teza. «Poco o niente è arrivato a chi davvero ne aveva
diritto, che ha invece spesso dovuto sopportare l'umiliante definizione di
"parassita dello Stato" da parte della stampa e dell'opinione
pubblica. Questa è sicuramente una delle cose che brucia di più. E la storia
si ripete ogni volta che vengono stanziati fondi nel nome della tragedia. La
verità è che con le transazioni firmate o con la vendita delle licenze il
discorso per noi si èchiuso una volta per tutte. I superstiti non hanno mai
più avuto voce in capitolo nemmeno nel decidere come ricostruire i loro paesi.
Nessuno ha ascoltato le nostre richieste. Aspettiamo ancora che venga
ricostruita la chiesetta di Pirago, quella del campanile che èrimasto in piedi.
Noi tutti ci terremmo molto. Ma ogni volta ci dicono che ci sono altre
priorità». Per i superstiti il discorso è stato chiuso con solerzia. Ma
intanto alcune ditte continuano a ricevere rifinanziamenti a condizioni
speciali. Una delle principali obiezioni che viene fatta a quanti
gridano allo scandalo per i soldi distribuiti con troppa generosità dallo Stato
per la ricostruzione èche comunque in tutta la zona si sono creati sviluppo,
posti di lavoro, benessere. Grazie alla legge Vajont sono stati costruiti con
agevolazioni finanziarie e fiscali 1'autoporto di Gorizia, la darsena di Lignano
Sabbiadoro, la superstrada Latisana~Iesolo, la funivia "Freccia del
cielo" della Marmolada e un'inf'mità di altre aziende (solo nel bellunese
circa trecento). Il problema, come sempre, è la trasparenza. Quello che in
alcuni casi è registrato e documentato (i risarcimenti ai superstiti), diventa
intricato e difficile da interpretare in altri. Perché a Longarone venne
costruito un palazzetto dello sport da serie A, con spalti in grado di ospitare
un pubblico più numeroso dell'intera cittadinanza, un'opera il cui costo di
gestione causa un deficit di 400 milioni di lire all'anno? Chi controllò che le
aziende che ottennero l'appalto per le costruzioni pubbliche non usassero
materiali scadenti (nell'imponente chiesa di Longarone piove dentro)? Nemmeno la ricostruzione delle case dei privati si svolse con
trasparenza. Anche in questo caso la legge lasciò ampio spazio alle
speculazioni e favorì chi, per vari motivi, poteva permettersi di farsi avanti
e trarre vantaggio dalla situazione. Con i risarcimenti per un appartamento vi
fu chi poté ricostruirne tre, mentre altri dovettero accendere un mutuo per
comprare due stanze e una cucina. Con i soldi del Vajont, in una frazione di
Erto è appena sorto un intero quartiere. Ma il Sindaco dice di non conoscere il
nome dei proprietari...
L.V.