Tratto da: "Il Gazzettino" del 29/10/2002
Da solo chiese giustizia per i morti del Vajont
LA STORIA: Il nome di Mario Fabbri, allora giovane giudice
istruttore, resterà per sempre legato ad una delle più grandi sciagure
provocate dall'uomo. Fu lui, solo contro tutti, ad istruire uno dei processi
più scomodi e difficili. 458 pagine mise assieme il mosaico delle verità taciute
mandando a processo otto persone ritenute responsabili del disastro. "Era cessato il vento e persistevano dei violenti
scuotimenti della terra, un rumore indefinibile molto forte, come di un tuono
estivo moltiplicato per cento, molto cupo, che è durato tre o quattro minuti.
Ho sentito dal paese un urlo prolungato di più voci... Immediatamente pensai
che la diga avesse ceduto. Con l'urlo di duemila persone, trovatesi
repentinamente in braccio alla morte, scomparve la sera del 9 ottobre 1963, alle
22:95, Longarone".
Si apriva così la sentenza con la quale l'allora giovane giudice istruttore
Mario Fabbri, mandò a processo i responsabili del disastro del Vajont,
portandosi dentro il peso del suicidio, annunciato, di uno degli imputati, Mario
Pancini.
Parole come pietre che resteranno scritte nella memoria di chi visse quella
scottante e lunga fase processuale, che resteranno negli archivi giudiziari a
raccontare la storia del Vajont, "lapide" alle mostruose perversioni
di un sistema che, in quell'epoca di cieca e disordinata crescita economica,
seppe anteporre il profitto al bene della collettività. La sciagura era
imminente. Tutti lo sapevano, ma i giochi non si potevano cambiare in corsa. La
Sade, per vendere la diga all'Enel, doveva avere il collaudo e collaudo
significava riempire al massimo il serbatoio, scatenando così il grande ventre
molle del Monte Toc: quando il livello venne abbassato,facendo venir mena la
pressione sul fianco della montagna, milioni di metri cubi di materiale
precipitarono nel lago, come un ..sasso in un bicchiere... La gigantesca onda si
alzò, superò la diga e si gettò su Longarone.
Fabbri lascia in queste ore la Procura di Belluno, ma il suo nome resterà una
pagina importante nella storia giudiziaria d'Italia. Raramente, in questi anni,
ha parlato in pubblico del Vajont. Lo ha fatto solo in occasione del
conferimento della cittadinanza onoraria di Longarone: "Oggi, in
un'occasione come questa, mi sembra doveroso ricordare e ringraziare quanti
collaborarono con me nei momenti salienti del processo. Con grande sofferenza
ricordo una persona, di cui nessuno ha mai parlato: il direttore del cantiere,
Mario Pancini, che si suicidò il giorno prima dell'apertura del processo...
Toccò proprio a Fabbri raccogliere quella disperazione che prometteva nuova
morte e ancora a lui decidere che Pancini andava comunque processato, nonostante
su quel rinvio a giudizio pesasse la minaccia del suicidio. E poi la lettera
all'anziana madre, scritta di suo pugno, per informarla che il figlio si era
tolto la vita. Dolore nel dolore. Per tutti. Fabbri poterà con se anche questo,
non solo perizie, sentenze e requisitorie.
In 458 pagine il magistrato mise così assieme il mosaico di uno dei processi
più difficili e scomodi d'Italia, che riuscì a portare a galla le verità
taciute.
Era il 20 febbraio 1968 quando depositò la sentenza del procedimento penale
contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini,
Roberto Maria e Augusto Ghetti. Penta e Greco nel frattempo morirono, mentre
Pancini si suicidò. II processo si aprì il 29 novembre 1968, a L'Aquila, dove
venne spostato dalla Corte di Cassazione per "legittima suspicione". I
reati contestati erano di disastro colposo, frana, disastro colposo
d'inondazione, aggravati dalla previsione dell'evento, e omicidio colposo
plurimo aggravato. Al termine del processo, il 17 dicembre 1969, restò in piedi
solo l'omicidio colposo plurimo per il quale vennero condannati a sei anni di
reclusione, di cui due condonati, Biadene (direttore del servizio costruzioni
Sade), Batini (presidente della V Commissione lavori pubblici) e Violin
(direttore del Genio civile di Belluno), ritenuti responsabili del mancato
sgombero. Assolti tutti gli altri. Cadde anche l'aggravante della
"prevedibilità". Il 26 luglio 1970, sempre a L'Aquila, iniziò il
processo d'Appello che mise una pezza allo smacco del primo, riconoscendo la
"prevedibilità". La posizione di Batini venne stralciata per problemi
di salute. Il 3 ottobre la sentenza confermò la condanna solo per Biadene
affiancandogli nella responsabilità anche Sensidoni. Sei anni al primo, quattro
e mezzo al secondo, tre dei quali condonati. A soli 15 giorni dalla prescrizione
la Corte di Cassazione, tra il 15 e il 25 marzo 1971, confermò la colpevolezza
di Biadene e Sensidoni.
II processo Vajont si chiuse così con pene irrisorie rispetto a quei fatti che
Fabbri documentò in quelle 458 pagine chiedendo giustizia per quei 2000 morti,
lottando da solo come Davide contro il Golia.
Lauredana Marsiglia