Tratto da: "Il Gazzettino" del 13/02/1969

Le ore che precedettero il disastro nel racconto dell'imputato Biadene

Si profilano negligenze e responsabilita' dei tecnici

L’udienza si e’ chiusa drammaticamente, con l’angosciata frase di un superstite il quale e’ scoppiato in singhiozzi – L’ex dirigente della Sade ha ammesso che soltanto la sera della catastrofe informò il geologo Penta che le prove avevano indicato quota 700 quale limite di sicurezza per l’invaso

 

(DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE)

L'Aquila, 12 febbraio

L'ombra dei duemila morti nel disastro del Vajont è cala­ta fulminea sul processo, ridan­dogli la dimensione inevitabile E' stato quando l'imputato nu­mero uno, l'ing. Nino Alberigo Biadene, ha terminato il suo freddo e distaccato racconto della storia tecnica del bacino artificiale con queste parole: «II geometra Rittmayer (un dipendente dell'Enel ‑ Sade ad­detto al cantiere del Vajont, na­turalmente morto anche lui, n.d.r.), telefonandomi a Vene­zia, poco dopo le 21 del 9 ottobre 1963, mi assicurò che nes­sun segno di particolare peri­colo si notava nella zona della frana e che stessi tranquillo che, se novità ci fossero state, mi sarebbero subito state comunicate telefonicamente. E' l'ultima comunicazione che eb­bi col mio personale di lassù».

Un superstite di Erto, uno dei tanti dal cognome Filippin, che stava dietro le transenne, con voce rotta dalla commozione gli ha risposto: « Anche per la nostra gente fu l'ulti­mo momento ». E si è messo a singhiozzare, nascondendo il volto fra le mani.

Nell'aula si è fatto silenzio gelido. Tutti sono rimasti co­me paralizzati. Il Presidente del Tribunale, dopo un minu­to di smarrimento, ha tolto la udienza.

E' stato il momento più drammatico dell'udienza e forse del processo, che si è vio­lentemente contrapposto al cli­ma in cui si è svolto, durante. tre giorni, l'interrogatorio del responsabile tecnico del Vajont al momento del disastro.

Biadene, nei giorni scorsi, a­veva accusato i geologi e i tec­nici che non ci sono più (da Dal Piaz a Semenza senior), per gli affidamenti datigli. Poi ha cercato di dimostrare che i consulenti della Sade non lo a­vevano mai avvertito dei peri­coli cui si correva incontro (la circostanza è invece smentita dai documenti processuali) e il Presidente del Tribunale ha già contestato all'imputato questa diversa realtà delle cose). Poi, ancora, ha chiamato, quali cor­rei, i funzionari dello Stato che autorizzarono gli invasi nel bacino artificiale, senza tenere conto che, nella sentenza istrut­toria, è scritto a chiare lettere che una delle sue colpe è pro­prio quella di aver nascosto lo­ro preziosi elementi di valutazione dei fatti.

Oggi, continuando nella sua relazione, astratta come se si trattasse di avvenimenti di la­boratorio, avulsi dalla realtà delle cose (non un accenno u­mano per le vittime e per i suoi collaboratori sepolti dalla frana), ha spinto il discorso an­cora più in là, nel tentativo di coinvolgere il maggior numero di persone. La sua strategia del­lo scaricabarile si è trasforma­ta nell'impossibile dimostrazio­ne che egli è a posto, avendo informato di quanto stava ac­cadendo al Vajont, tecnici e funzionari. Non si è assunto responsabilità (come, invece, almeno in parte, era avvenuto in istruttoria), ed è davvero inspiegabile questo sbandamen­to della sua condotta proces­suale, né sul piano tecnico, né su quello umano, neanche per quanto riguarda i giorni imme­diatamente precedenti al disa­stro.

C'è stato un solo momento in cui egli non ha potuto sfug­gire alla prova dei fatti: quan­do ha ammesso che soltanto la sera del 9 ottobre 1963, qual­che ora prima della catastrofe ‑ si tratta di un elemento fi­nora ignoto al processo ‑ in­formò il geologo della commis­sione di collaudo della diga, i1 prof. Penta (anch'egli Imputa­to, ma morto durante l'istrutto­ria), che le prove su modello eseguite a Nove di Vittorio Ve­neto avevano dato quota sette­cento come limite di sicurezza, mentre il livello dell'acqua era stato portato, ai primi di set­tembre, dieci metri sopra, a quota settecentodieci. E l'espe­rimento su modello era comin­ciato oltre due anni prima: la relazione era stata depositata nel luglio 1962. 

Storia senza storia

Il racconto reso stamane da Biadene al Tribunale dell'Aquila, come si è anticipato, ha a­vuto le caratteristiche di una storia senza storia, se dietro a essa non vi fossero le tremende conseguenze del disastro. In sostanza, l'imputato ha ripetuto cose che sono già nelle « car­te» del processo, salvo accentuare la propria estraneità a ogni responsabilità. E' la sto­ria, a modo suo, del Vajont negli ultimi giorni precedenti il 9 ottobre.

2 ottobre 1963. L'imputato si reca a Roma dall'ing. Baronci­ni, direttore centrale dell'Enel, e si intrattiene, ha detto, in modo abbastanza approfondito su quanto stava accadendo nel serbatoio artificiale, esaminan­do i diagrammi dei movimenti della frana registrati nei gior­ni immediatamente precedenti; lo informa anche che aveva de­ciso di svasare il lago a quota seicentonovantacinque, cinque metri sotto quella che il prof. Ghetti, in base alle prove su modello, aveva indicate come quota di sicurezza. Gli chiede, infine, di domandare al prof. Penta e agli altri componenti della commissione di collaudo di compiere un sopralluogo al Vajont.

Nei giorni seguenti Baroncini comunica a Biadene che ha fis­sato per 1' 8 ottobre un collo­quio con il prof. Penta.

7 ottobre 1963. Biadene, se­condo la propria deposizione, ascolta dall'ing. Caruso, sostitu­to temporaneo dell'ing. Panci­ni come direttore dei lavori al Vajont, una relazione sullo svaso del lago e i movimenti della frana. Caruso compie un’altra ispezione ai lavori nel po­meriggio; si accorge che le ve­locità dei movimenti sono in aumento e che si è aperta una nuova fessura. Fa opera di convinzione presso gli abitanti delle case sulla frana affinché abbandonino il posto.

8 Ottobre 1963 ‑ Biadene, alla mattina, secondo la sua ricostruzione dei fatti, visita con Caruso, con i geometri Rittmayer e Rossi e con l'assi­stente De Pra (che sono tutti morti nel Vajont, n.d.r.), la zona della frana, dopo aver stu­diato i diagrammi del movi­mento dell'enorme mole rocciosa. Dopo di che decide di chie­dere al Sindaco di Erto‑Casso di sgomberare la zona della fra­na e di vietare l'accesso sotto quota settecentotrenta. Telefo­na anche agli uffici veneziani

dell'Enel‑Sade, perché dicano al prefetto di Udine di solleci­tare l'Amministrazione comuna­le ertane.

Dice Biadene che i « guasti » notati sul versante sinistro del Vajont non gli sembravano più gravi di quelli riscontrati do­po la frana del 1960; ma aggiun­ge, poi, la subordinata: « Se si toglie l'inclinazione di alberi nella zona a monte della frana della Pozza e una nuova fessu­ra ». Ma nota anche un deciso abbassamento del terreno, vi­cino a un ponticello sul quale passava la strada per andare alla località Pozza. Caruso dice a Biadene che, quella mattina, a Belluno, si era incontrato con l'ingegner Beghelli, del Ge­nio civile, al quale aveva rac­contato quello che aveva con­statato il giorno prima al Vajont.

Nel pomeriggio, rientrato a Venezia, Biadene riceve una relazione (telefonica) dall'ingegner Baroncini, il quale gli di­ce di aver parlato col prof. Penta dei problemi del Vajont e che quest'ultimo ha espres­so, sulla situazione, un giudi­zio tranquillante. Gli conferma anche che il giorno 11 sarebbe­ro venuti al Vajont sia lui che l'assistente di Penta, il prof. Esu. 

La velocità della frana

9 Ottobre 1963 ‑ Biadene telefona al prof. Esu il quale gli dice, che nel colloquio della sera precedente tra Baroncini e Penta, la situazione non è stata ritenuta allarmante. Tele­fona poi a Roma, all'ing. Sen­sidoni (oggi imputato), per sol­lecitare una visita della com­missione di collaudo. Poco do­po è chiamato dall'ing. Batini della commissione di collaudo (altro imputato), al quale riferisce la situazione. Chiama quindi, per telefono, a Roma. il prof. Penta, e gli dice che le velocità della frana sono an­cora aumentate, che il livello del lago è a quota 700,75, che le prove su modello avevano dato quota settecento come quota di sicurezza, e che egli aveva chiesto lo sgombero del­la zona della frana.

PRESIDENTE ‑ Nel colloquio con Penta non gli fu det­to che si erano avvertiti, pro­venienti dalla montagna, rumo­ri, di tuoni, brontolii, e che l'acqua del lago si era intor­bidita?

BIADENE ‑ No.

PRESIDENTE ‑ Perché?

BIADENE ‑ Perché il mio personale non me ne aveva fat­to cenno in quell'occasione. Ma in precedenti.

PRESIDENTE ‑ Ma, bene o male, prima il suo personale glielo aveva detto. E Penta non ne venne a conoscenza. Esatto?

BIADENE ‑ Sissignore.

PRESIDENTE ‑ Del fatto che il prof. Ghetti avesse in­dicato quota settecento come quota di sicurezza, lei informò Penta la sera del 9 ottobre.

BIADENE ‑ Penta, come ho detto, fu informato da me il 9 ottobre che l'esperienza idraulica di Ghetti aveva dato quota settecento come quota di sicurezza. Non mi risulta, però, che egli fosse già a co­noscenza di questa circostanza. Non posso né ammetterlo né escluderlo.

PRESIDENTE – E chi altro dei « romani », cioè dei « ministeriali » era a conoscenza di questa quota di sicurezza?

BIADENE ‑ Penso che nessuno degli imputati cosiddetti ministeriali fosse a conoscen­za del fatto che le prove di Ghetti avevano dato quota set­tecento come quota di sicurezza.

AVV. TOSI (di parte civile) ‑ Scusi, Presidente. si potreb­be sapere...

PRESIDENTE ‑ Non tollero interruzioni ora. Le contestazioni degli avvocati saranno am­messe dopo che l'imputato avrà vuotato il sacco.

Biadene riprende il raccon­to e, riferendosi al colloquio telefonico con il prof. Penta, dice che questi uscì nella fra se: «Biadene, stia calmo. Non si fasci la testa prima di es­sersela rotta. Attenda la venu­ta di Esu e solo dopo potremo ragionare con gli elementi di fatto». Biadene afferma che egli riferì tutto ciò all'ing. Ba­roncini e di aver telegrafato nello stesso senso all'ing. Sen­sidoni.

BIADENE (testualmente continuando) ‑ Verso le diciannove telefonai all'ing Marin (di. rettore generale dell'Enel ‑ Sade di Venezia), che era...

PARECCHI AVVOCATI ‑ a Rapallo...

BIADENE ‑ ... per dargli no­tizie della situazione e comunicargli i provvedimenti adot­tati. L'ing. Marin mi chiese se doveva rientrare a Venezia e io, saputo che l'avrebbe fatto comunque l'indomani, non lo sollecitai a farlo subito». 

II blocco stradale

Continua la deposizione del­l'imputato. L'assistente De Pra chiede al maresciallo dei cara­binieri di Longarone di bloccare la strada tra Longarone e la diga. II maresciallo rispon­de che gli occorre l'autorizza­zione. De Pra riferisce questa cosa a Biadene, il quale tele­fona all'ing. Caruso, a Belluno, affinché rintracci il capi­tano dei carabinieri per solle­citargli il rilascio dell'autorizza­zione. Batini telefona a Bia­dene per confermargli che pro­ceda negli svasi del lago col ritmo dei giorni precedenti. L'assistente De Pra, alle 21, te­lefona a Biadene, per dirgli che il blocco stradale era avvenu­to e che aveva mandato due operai a interrompere la strada dalla diga a Erto.

Poco dopo telefona il geome­tra Rittmayer il quale riferisce a Biadene che sotto quota 730, alle Spesse, ci sono ancora ca­se abitate, nonostante l'ordi­nanza del sindaco di Erto. Bia­dene chiede a Rittmayer se ha notato cadute di sassi o grossi movimenti di materiale. E qui si innesta la frase finale del racconto, riferita all'inizio del­la cronaca dell'udienza.

Poco più tardi delle 21 del 9 ottobre 1963, la valle del Piave, da Codissago in giù, è un gran­de cimitero.

Fiorello Zangrando