Tratto da: "Il Gazzettino" del 18/12/1969

Vajont, la notte del giudizio

Si e' chiuso il lungo processo sei anni dopo la sciagura

Ore 18.10: l'aula è gremita. Gli avvocati sono dozzine, un centinaio di persone sono presenti fra i quali diversi longaronesi. I fotografi lampeggiano sugli imputati, le telecamere hanno fatto comparsa in massa perno nei corridoi. E' un momento di grande tensione quello che accompagna l’ingresso in aula del presidente Marcello Del Forno e dei due giudici Tentarelli e Ratiglia.

IL presidente si alza e si rivolge agli imputati: «Si­gnori imputati, hanno al­tra da aggiungere in loro difesa?»

Gli imputati non hanno niente da dire, nemmeno Frosini dice niente.

Comincia l'attesa, un'attesa fremente, ansiosa. 144 udienze, tredici mesi di un dibattito aperto, ampio, sereno approfondito, non limitato da pregiudizi di sorta né da condizionamenti psicologici di alcun genere.. Il processo, che si iniziò la mattina del 25 novembre 1968, ventiquattro ore dopo che un altre, imputato, l'ing. Pancini si era tolto la vita, sta per concludersi.

ORE 22,30 - L'attesa è sempre vivissima. Non meno di duecentocinquanta persone bivaccano nell’aula, nel grande salone vicino, aspettando che il tribunale esca dalla camera di consiglio. Da Longarone è giunto un secondo pullman di superstiti: giovani che dovevano essere ragazzi il giorno della sciagura; vecchie donne che portano ancora il lutto. Si sono allineati in silenzio sul fondo dell'aula. Vicino agli imputati stanno i loro familiari; sono decine di persone. Man mano che passano le ore entrano nell'aula i familiari degli avvocati: sembra quasi un luogo di incontro per una larga parte della società aquilana. Alle ore 22.50 è suonato il campanello che annunciava il prossimo rientro in aula del tribunale. Il pubblico si è alzato in piedi e si è fatto un greve silenzio. Per sette minuti esatti nessuno ha parlato: tanto è stato il tempo trascorso tra il primo ed il secondo squillo. Annunciati ancora dal campanello, sono entrati, in aula prima il presidente Dal Forno, seguito dai giudici Tentarelli e Ratiglia.

Nel più assoluto silenzio, il presidente ha letto la sentenza: Nino Alberico Biadene, Curzio Batini e Almo Violin, riconosciuti colpevoli di cooperazione in omicidio plurimo colposo; Biadene e Batini, esclusi dall'aggravante della previsione dell'evento; tutti e tre condannati a sei anni di reclusione più le spese; tutti e tre beneficeranno del condono di due anni di pena. Il tribunale ha assolto Biadene e Batini dalle altre imputazioni.

Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Dino Tonini, Roberto Marin, assolti da tutte le imputazioni perché i fatti loro addebitati non costituiscono reato, Augusto Ghetti, assolto da tutte le imputazioni per non aver commesso il fatto.

Appena il Presidente ha finito di leggere la sentenza, la moglie di Terenzio Arduini, ex sindaco di Longarone, si è alzata in piedi e ha gridato: «Ammazzatene altri duemila. Dategli la medaglia d'oro». Mentre i carabinieri e le guardie di polizia cercavano di far sgomberare l'aula in cui si incrociavano vivaci commenti di dissenso ma anche di assenso, la Arduini ha gridato ancora: «La legge è uguale per tutti ma solo per i ricchi»

Scene completamente diverse, ovviamente, avvenivano fra gli imputati, dove l'ing. Marin non riusciva più a trattenere le lacrime di soddisfazione per l'assoluzione avuta; commossi apparivano anche gli altri imputati verso i quali si indirizzavano gli avvocati per congratularsi.

Da una prima frettolosa lettura della sentenza, si può dire che gli imputati sono stati in sostanza assolti da tutte quelle imputazioni che riguardavano la prevedibilità: sono state cioè accolte le richieste subordinate della difesa, illustrate in modo particolare dal prof. Conso. Il tribunale ha cioè condannato Biadene, Batini e Violin, soltanto per il mancato allarme che avrebbero dovuto dare negli ultimi tre giorni. Ha infatti assolto coloro che con la decisione relativa all'allarme nulla avevano a che fare. Il Presidente ha quindi dato lettura di tutte le implicazioni riguardanti il risarcimento dei danni e il pagamento alle parti civili in sede separata.

Mentre carabinieri e guardie di polizia su ordine del presidente facevano sgomberare rapidamente l'aula, parecchie persone, soprattutto fra i superstiti di Longarone, si attardavano nelle vicinanze di palazzo di giustizia, protestando violentemente contro la decisione del tribunale. Vi sono stati anche alcuni incidenti fra gli avvocati; l'avvocato Canestrini ad altissima voce ha gridato: a Il Pubblico ministero si appellerà». Il Pm però non ha detto nulla.

Ma ecco la cronaca dell'udienza mattutina, dell'ultima udienza, conclusasi quando già il pomeriggio era avanzato, cioè dopo le ore 15.

Per Batini, l'imputato presidente della quarta sezione del ministero dei Lavori pubblici, ha preso la parola l'avv. Filippo Ungaro, il quale ha richiamato l'attenzione del Tribunale su un fatto: giudicando Batini - ha detto - stabilendo cioè se la sua condotta fu ineccepibile o meno in relazione al Vajont, si pronuncerà un giudizio su tutta la pubblica amministrazione.

Trattando del comportamento di Batini, Ungaro ha fatto presente che i criticatissimi «ministeriali» avrebbero soprattutto il torto di avere avuto fiducia nella Sade. Ma perché non avrebbero dovuto averne, chiede Ungaro, se questa fiducia è stata espressa, così come è avvenuto, in forme lecite e con tutte le misure precauzionali? Cioè: la concessionaria, la Sade, era una società di grosse tradizioni tecniche, di solidissima consistenza finanziaria, una società che dava tutte le garanzie.

Comunque, a maggiore garanzia, nonostante tutto questo, a ulteriore e definitiva sicurezza e copertura, un imputato, il Frosini che precedette il Batini nella presidenza della IV sezione dei Lavori Pubblici, volle procedere alla costituzione di una commissione di collaudo in corso d'opera.

Fecero infatti parte di questa commissione: Frosini, chiamato a ciò dal ministro, non tanto per la sua carica dalla quale nel frattempo era scaduto, quanto per la sua specifica competenza; e non Batini, per quanto fosse il nuovo presidente della IV sezione e proprio perché Batini aveva un tipo di esperienza completamente diversa, non legata alle dighe: si veda ciò che egli ha fatto per la difesa dalle inondazioni del Po tanto che ne ebbe una medaglia d'onore.

Frosini dunque entrò nella commissione per le sue competenze specifiche; poi entrarono il prof. Greco, che fu presidente del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici; Sensidoni che dirigeva l'ufficio-dighe del ministero e infine il prof. Penta, estraneo al ministero ma luminare della geologia, scienziato di chiarissima ed indiscussa fama. Insomma le garanzie c'erano, ha detto Ungaro. Quanto ai suo compiti ministeriali, il Batini li espletava disponendo di una «mente»e di un «braccio»: la mente era il competente per definizione, cioè Sensidoni, capo dell'ufficio-dighe; il braccio era Almo Violin, capo del Genio civile di Belluno. Ad essi Batini si rivolgeva per consultarsi e per dare disposizioni; in più aveva la commissione di collaudo.

Ora la colpa che più si contesta a Batini è quella di avere autorizzato il terzo invaso del bacino: anzitutto non vi fu autorizzazione, precisa Ungaro. Batini, non ha dato autorizzazioni ma ha rilasciato un nullaosta sulla base dei giudizi formulati da Sensidoni e dalla commissione.

L'arringa di Ungaro, perché non si può parlare in questo caso di replica, precede la breve risposta che Conso ha riservato agli avvocati di parte civile. Una risposta secca e vivace, densa di fatti e richiami giuridici e tecnici. Conso soprattutto mira a scalzare l'osservazione del patrono di Longarone, avvocato Ascari, illustrando una risposta negativa alla domanda se le cognizioni del tecnico devono avere radici nella certezza. E' impensabile che sia così, risponde Conso: se così invece dovesse essere il progresso si fermerebbe, tutto si arresterebbe.

Lauro Bergamo