"Un sasso e' caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua é traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri ed il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi".

Così scriveva Dino Buzzati sul "Corriere della Sera" il 10 ottobre 1963.

Il giorno prima, alle 22:39, dalle pendici del monte Toc, nella valle del Vajont, 300 milioni di metri cubi di roccia erano precipitati nel bacino artificiale della diga alla velocità di 80 km orari. L'enorme massa di roccia aveva sollevato un'onda alta 250 metri: un fungo liquido di cinquanta milioni di metri cubi si era alzato in verticale sulla valle, aveva ondeggiato, si era rotto in due giganteschi tronconi. 25 milioni di metri cubi d'acqua si erano abbattuti sui paesi di Erto, Casso, sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, Il Cristo. 160 morti.

25 milioni di metri cubi d'acqua avevano scavalcato la diga ed erano precipitati a 80 km l'ora verso la piana del Piave. Cinque paesi erano stati spazzati via dalla faccia della terra: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Fae'. 2.000 morti.

Come Buzzati, tutti parlarono di fatalità, di catastrofe ecologica, di evento imprevedibile. E come tale la tragedia del Vajont si e' sedimentata nella memoria collettiva di questo Paese: una fatalità. Non fu così.

La storia del Vajont fu una storia di sopraffazioni, di ricerca del profitto a tutti i costi, di connivenze tra imprenditoria e politici, di assenza di controlli, di arroganza di poteri troppo forti, di silenzi della stampa, di umiliazione dei semplici, di complicità di tanti organi dello Stato.

Una storia di povera gente che lotta per difendere la propria terra dall'arroganza di una società privata che in nome di un presunto progresso ha deciso di cancellare un'intera valle.

Tutto questo e' stata la tragedia del Vajont.

Fare oggi un film su quella tragedia significa fare un film sul potere e sull'uso che ne fanno le classi sociali e politiche che lo detengono. E' sorprendente che in questi quarant'anni nessun cineasta abbia sentito il dovere di raccontare la storia del Vajont. Una storia tristemente uguale a quelle che accadono oggi, storia di italiani offesi, umiliati, tiranneggiati, uccisi.

Oggi chi si ricorda più del Vajont? Chi conosce la sua vera storia dall'inizio alla fine?
I giovani non possono sapere, perché sono nati dopo e soprattutto perché non hanno memoria e non amano ricordare. I vecchi hanno vissuto in questi quarant'anni tante altre tragedie dal confonderle nel ricordo. Giovani e vecchi di un Paese senza memoria.
E' doveroso fare questo film. Per il rispetto che dobbiamo a quei duemila morti ammazzati. Per costringere questo Paese a ricordare.

Ma il film sulla tragedia del Vajont non e' solo questo. E' anche una sfida. Per la prima volta, forse, in Italia si tenta di dar vita ad un progetto ambizioso, dal respiro europeo: una grande storia di impegno civile sostenuta da un impianto spettacolare, avvincente.
Nessun film italiano prima di questo ha avuto bisogno di coinvolgere tante energie produttive e post produttive.

Raccontare il Vajont significa raccontare la costruzione di una diga alta 261 metri, significa raccontare la scomparsa di un'intera valle che viene sepolta sotto un lago profondo 300 metri, significa raccontare une vento di proporzioni bibliche. Un thriller politico, pieno di suspense.

Eppure non c'e' nulla di inventato nella sceneggiatura.

Tutto era già scritto nelle migliaia di pagine di istruttoria, nelle sentenze dei vari gradi di giudizio, nelle testimonianze dei sopravvissuti, sulle quali ci siamo documentati per arrivare alla sceneggiatura definitiva. I colpi di scena, gli intrighi, i documenti falsificati, le perizie nascoste. Tutto era già stato scritto.

Il 9 ottobre 1963, alle 22:39, un sasso e' caduto in un bicchiere d'acqua.
Oggi a quarant'anni di distanza noi sappiamo perché.

Questo film lo vuole raccontare. Per non dimenticare.

RENZO MARTINELLI